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Immigrati a rischio

Centro Studi > Prevenzione Criminale e Sicurezza Urbana

Immigrati a rischio di devianza criminale

A cura del dr. Massimo Blanco

Gli immigrati a rischio di devianza sono coloro che arrivano nel nostro Paese senza punti di riferimento, credendo di trovare un “Eldorado” ricco di opportunità (complice l’informazione che da una immagine dell’Italia troppo florida e benestante) e che, tendenzialmente, sembra poter agevolmente garantire una adeguata accoglienza, una buona assistenza e un degno inserimento nella società (un lavoro, una casa ecc…).
I grandi arrivi di massa, per intenderci quelli con le “carrette del mare”, sono uno dei modi per arrivare in Italia, che è divenuta anche il “portale” per l’Europa da parte di soggetti provenienti dal Sud del mondo e da Stati retti da governi totalitari o territori dilaniati dalle guerre civili.
Alcuni degli immigrati che sbarcano sulle nostre coste (o annegano nei nostri mari), sperano di raggiungere la Germania, la Francia o altri paesi europei.
Ma non sanno che la strada è impraticabile, che mai raggiungeranno il loro obiettivo e che saranno costretti, al massimo, a restare in Italia.
Per fare fronte all’emergenza, il Governo ha creato i famosi “Centri di Permanenza Temporanea” (istituiti nel 1998 dalla Legge n. 40 Turco-Napolitano) che oggi hanno una capacità ricettiva decine di volte inferiore rispetto al numero di immigrati che ogni settimana arrivano da noi compiendo il cosiddetto “viaggio della speranza”.

Queste persone che si illudono di andare incontro ad una vita migliore, sono tre volte vittime:

- vittime della situazione esistente nel loro Paese d’origine;

- vittime della credenza di poter migliorare la loro condizione esistenziale;

- vittime delle organizzazioni criminali che, a caro prezzo, vendono il “biglietto della speranza” e non esitano a buttare in mare aperto i loro passeggeri se le cose si mettono male.

I Centri di Permanenza Temporanea dovrebbero fornire le prime cure, i generi di conforto e identificare l’immigrato. Ma l’identificazione non è quasi mai possibile e, qualora avvenga, lo Stato d’origine rinnega quasi sempre il proprio cittadino o impedirà il suo rimpatrio per le più svariate ragioni (a meno di offerte generose in cambio).
Se l’immigrato ha parenti in Italia che si fanno avanti, può essere che avvenga il ricongiungimento e che le cose finiscano bene. Ma non per tutti è così.
La maggior parte, dopo aver trascorso un periodo nel Centro di Permanenza (che poi, tanto “temporanea” non è), fugge e si ritrova a dover fare i conti la triste e sconsolante realtà.


Una realtà probabilmente ancora più triste, è dovuta al fenomeno dell’immigrazione clandestina, ben celata, operata dalle organizzazioni criminali dell’Est europeo le quali portano in Italia centinaia di ragazze con la promessa di un buon lavoro e di una vita migliore, ma invece le costringono a prostituirsi, con violenza e minacce di morte nei confronti della vittima o di ritorsioni nei confronti dei familiari di questa rimasti in patria.
Le ragazze portate qui dall’Est con la promessa di un lavoro, si scontrano immediatamente con la brutalità e la violenza dei loro aguzzini.
Sono vittime innocenti, spesso poco più che bambine, di loro stessi connazionali, addirittura amici o fidanzati. Criminali senza scrupoli, pronti a vendere le loro donne.

Per chi è giunto sulle carrette del mare e, scappato dai Centri di Permanenza Temporanea si ritrova a vagabondare per le nostre città, senza conoscere la lingua e i costumi, non avendo alcun punto di riferimento e con una quasi esaurita speranza di poter realmente cambiare vita, il passo per essere coinvolto in attività criminali è breve, a meno che non si accontenti di lavori stagionali di natura agricola o edile, forniti da imprenditori senza scrupoli i quali, in cambio di un magrissimo compenso e di un “alloggio” (parliamo di baracche putride), sfruttano all’inverosimile queste persone.
Ridotti in stato di semi-schiavitù, lontani migliaia di chilometri dai loro cari, disorientati, affamati, in condizioni igienico-sanitarie precarie e vessati da lavori estenuanti, questi soggetti iniziano ad essere etichettati automaticamente dalla società. Non perché abbiano commesso un reato, non perché conducono una vita sregolata, non perché sono soggetti devianti. Vengono etichettati perché clandestini, sporchi e bisognosi.
Alcuni, i più forti e fortunati, riusciranno prima o poi a raggiungere la loro meta di una condizione di vita più favorevole. Gli altri, oramai senza speranza e meno fortunati, finiranno inevitabilmente nel racket della criminalità organizzata come “dipendenti” a buon mercato e soprattutto fedeli.
Così, già etichettati in precedenza, assumeranno una devianza secondaria “vera” e pericolosa, cioè quella criminale, e saranno convinti essi stessi che quello è il loro nuovo status sociale, all’interno di un sottogruppo deviato, che comunque li ha accettati e con il quale potranno condividere i valori della delinquenza come mezzo illegittimo per raggiungere la propria meta.
Anche per le ragazze dell’Est europeo l’etichettatura è pressoché immediata dal momento in cui vengono messe sulla strada a prostituirsi.
Come se non bastassero già l’inganno, le percosse e le violenze perpetrate a loro danno,
e l’immane sofferenza che ne deriva, l’etichetta viene apposta dal primo cliente al quale dovranno vendersi.
La devianza secondaria viene interiorizzata già dopo i primi giorni. La donna è una prostituta e viene etichettata come tale non solo dai suoi carcerieri ma dalla società, giungendo prima o poi a comportarsi e considerarsi come deviante.

Il sociologo americano Robert K. Merton (1910-2003), che approfondì e riformulò la teoria dell’anomia durkheimiana, ci può fare comprendere come un soggetto (in questo caso consideriamo l’immigrato meno fortunato) che si ritrova davanti una realtà che non coincide con le proprie aspettative, possa sviluppare un comportamento deviante.
Contrariamente alla teoria di Durkheim, che parte dalla posizione del soggetto rispetto alla società, Merton inverte le posizioni partendo appunto da quest’ultima.
Secondo la sua teoria, la società ci propone delle mete di realizzazione (come ad esempio
il successo economico) ma non pone la necessaria enfasi sui mezzi tramite i quali raggiungerle.
Da qui derivano diverse risposte di adattamento: il “conformismo”, la “innovazione”,
il “ritualismo”, la “rinuncia” e la “ribellione”.

· il conformismo si attua quando il raggiungimento della meta avviene attraverso l’utilizzo di mezzi legittimi (il sogno che si realizza);

· l’innovazione si attua quando il raggiungimento della meta si verifica attraverso l’utilizzo di mezzi non legittimi ovvero la conquista della meta proposta avviene con qualsiasi mezzo. Comportamento che potremmo definire “machiavellico”, tipico di chi si dedica ad attività criminali;

· il ritualismo si concretizza quando si rispettano in modo preciso e scrupoloso le regole istituzionali non condividendone gli scopi sociali oppure non comprendendone il vero significato (cosa che accade spesso quando si ha a che fare con taluni burocrati ottusi che seguono alla lettera le regole senza guardare i risultati);

· la rinuncia si realizza quando non si condividono le mete proposte dalla società e, quindi, si rifiutano anche i mezzi per raggiungerle. Questo porta al ritiro dalla vita sociale dell’individuo (è il caso di tossicodipendenti ed emarginati di diversa specie);

· la ribellione si attua quando vi è il rifiuto sia delle mete proposte che dei mezzi legittimi per raggiungerle così che l’individuo li sostituisce entrambi con altri.

Sia nell’innovazione che nel ritualismo, per Merton, si ha un caso di anomia, in quanto vi è discontinuità tra mete proposte e mezzi per raggiungerle.
Nel caso dell’immigrato, quindi, secondo quanto postulato da Merton, abbiamo un caso di innovazione, cioè di devianza anomica. Se il soggetto si confronta con una realtà nettamente contraria alle proprie aspettative (successo economico), complice il bisogno di sopravvivere, diventa un deviante criminale.





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